Il bene è suo e lo rivuole. E’ come sempre forte e risoluta, Emanuela Alaimo, che oggi ha promosso un flash mob davanti il Bar del Bivio, in via Messina Marine 797, per spiegare cosa sta succedendo da diversi mesi a questa parte.
La storia di questo bar ha inizio nel lontano 1954, quando la famiglia di Emanuela Alaimo decide di aprire questo esercizio commerciale, che nel 2005 ha festeggiato in Camera di Commercio i suoi primi 50 anni di attività.
«Quando nasce é un semplice chiosco di legno dove i miei genitori facevano il caffè con la napoletana ai camionisti che vi passavano. Tanto per capire, il dazio era proprio lì di fronte, due porte dopo l’attuale tabaccheria, e vi si faceva la pesa della merce. Sia mia madre sia mio padre – racconta la Alaimo, uno dei primi personaggi politici (ex assessore comunale al Bilancio, al Patrimonio e alla Condizione Femminile) a raccontare pubblicamente di essere rimasta vittima dell’usura – stavano lì 24 ore su 24, dormendo sulle brandine, per essere sempre pronti e disponibili per quanti lavoravano di notte e avevano bisogno di un caffè o di un pacco di sigarette».
Ciò che, però, diede vita a una catena di eventi drammatici fu un errore giudiziario che dichiarò fallita la madre in seguito al fallimento della “Siculsud leasing”. In prima battuta gli ufficiali giudiziari chiusero il bar, senza sentire ragioni, riuscendo la Alaimo solo in maniera rocambolesca a ottenere una sentenza di custodia che consentì di far ripartire l’attività.
«Io, però, non avevo la possibilità di seguire personalmente il bar, così lasciai ancora una volta la gestione alla famiglia. Nel frattempo dovevo fare in maniera, se volevo revocare la sentenza di fallimento, che nei successivi 6 mesi nessuno s’insinuasse nel passivo di questo fallimento, ottenendo in tal modo la relativa liberatoria. La mia angoscia era che mia madre, dopo tutti questi anni di attività, sarebbe morta con questa macchia. Era per me un fatto più morale che altro. In quei sei mesi la mia fu una corsa folle, che mi fece aprire finalmente gli occhi su quello che mi circondava».
Nonostante tutto, Emanuela Alaimo non ce la fa e, affidamento su affidamento, niente era sufficiente, così fu inevitabile imbattersi nel solito “amico”, in due parole Francesco Gatto, l’usuraio che negli anni a venire gestirà la sua vita, affondando sempre di più il coltello nelle tante ferite.
«Tutto ciò per quei maledetti 6 mesi, chiudendo scoperture su scoperture, ma mai facendola, avendo anche il peso del costo dei tabacchi che non era certo indifferente. Gatto lavorava alla Dogana, quindi per lui era facile insinuarsi in tante situazioni. Abitavamo anche nello stesso palazzo. Non riuscirono a fermarmi neanche le avvertenze di un vicino che era già sua vittima e che poi, nel tempo, denunciò l’usuraio insieme a me. In mano a lui finì la mia casa, ma fortunatamente mai il bar».
Immaginabile capire le vicissitudini di questa storia, sofferta non solo perché negli anni Emanuela Alaimo ha versato nelle tasche di Gatto almeno 1 milione di euro. Denaro che non è tornato indietro neanche in parte, visto che i beni di Gatto – primo caso del genere – sono stati sequestrati dallo Stato, ma dallo Stato non sono mai tornati a lei.
«Una divisione dei beni di famiglia affida sempre a me il bar, ma non potendomene occupare perchè nel frattempo erano intervenuti anche problemi di salute, lo do in gestione nel 2010 a Marco Arena, imprenditore che mi era stato consigliato da persone specchiate. Dopo appena 4 anni, però, l’immobile viene sequestrato perché ritenuto dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Palermo nella disponibilità economica del padre, Salvatore Arena, imprenditore vicino ai boss del clan di Villabate ».
Così, lo storico Bar del Bivio viene affidato a un amministratore giudiziario, tale avvocato Di Rosa, che lo prende in carico nel luglio del 2014 e lo chiude a dicembre dello stesso anno per incapacità a gestirlo. Significativo il foglio affisso al vetro dal 21 gennaio scorso, con su scritto “chiuso per inventario”. Inevitabilmente conseguente la sua distruzione a opera dei vandali. «Vista l’attuale situazione – tuona la Alaimo, oggi presidente del “Coordinamento vittime del racket e dell’usura” – chiedo di poterlo riavere per potere continuare a portare avanti il sogno che fu prima dei miei genitori, poi mio e della mia famiglia. Il bene, lo ribadisco, è mio e ho diritto a prenderne nuovamente possesso».
«Lo sfratto sicuramente lo vincerà nei confronti dell’amministrazione giudiziaria perché questa non paga – spiega l’avvocato Fausto Maria Amato, che assiste la Alaimo dal 1999 -, ma il problema è che il codice antimafia che regola le misure di prevenzione prevede una corsia che tutela le amministrazioni da qualunque azione esecutiva. Una follia, anche perché in questa situazione di stallo, la mia assistita paga il mutuo di 4mila euro circa al mese. Un sistema congegnato veramente in maniera sbagliata, che però si può cambiare. Bisogna lavorarci».
Accanto alla Alaimo e alla sua famiglia, questa mattina erano in tanti: gli abitanti della borgata, che conoscono molto bene la storia e non hanno mai lasciato sola la coraggiosa imprenditrice, ma anche rappresentanti dell’amministrazione comunale, come i consiglieri Giusi Scafidi e Paolo Caracausi.
«Da sempre condividiamo la battaglia di Emanuela Alaimo – afferma la Scafidi – che è poi la battaglia per rientrare in possesso dei beni confiscati alla mafia. Quando si parla di legalità, però, a dare prova di volere intraprendere questo cammino deve essere in prima battuta lo Stato, dimostrando di volere essere veramente vicino a chi rimane vittima di questi meccanismi».
Presente anche l’ex deputato all’Ars, Pino Apprendi, da sempre vicino alla famiglia.
«Ridarcelo significherebbe molto – conclude l’imprenditrice – anche perché potrebbe tornare a essere quel luogo di socialità per la borgata, nella quale si sono ben pochi punti di aggregazione. Un’occasione per dimostrare che la parola legalità ha una sua concretezza: quella di stare dalla parte dei giusti e difenderli nelle battaglie per i loro diritti».