Ecco la lettera che un capotreno ha inviato all’OR.S.A. per raccontare ciò che vivono da tempo i dipendenti delle Ferrovie, presi di mira e aggrediti in ogni maniera.
Una lettera toccante, che denuncia anche l’abbandono da parte dello Stato, che non si prende ancora carico della sicurezza dei dipendenti. Accanto ai quali c’è fortunatamente un sindacato come l’OR.S.A., le cui battaglie sono tese a ribadire che non abbasserà mai la guardia su questi incredibili e inaccettabili episodi di violenza.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo è successo di nuovo! Eppure ero stata attenta! Credevo di aver imparato dalla volta scorsa! Mi fanno male le costole, ho il labbro gonfio, non riesco ad aprire un occhio e mi ronzano le orecchie. I dottori dicono che in un paio di giorni sarò fuori. Ma che ne sanno loro che in realtà non ne esci mai? Che, non appena un cliente ti alza la voce, scattano mille campanelli d’allarme e te lo vedi subito addosso, subito sopra? Che i primi giorni rischieresti tutto pur di non tornare a lavorare? Certe ferite non rimarginano mai.
Comincia sempre allo stesso modo. Gli sorridi, ti avvicini, le solite frasi, sempre le stesse, e poi.. le tariffe. E’ un attimo. L’attimo prima stavi parlando, l’attimo dopo il volto si gela e gli occhi del cliente fanno paura. L’istante successivo, senza avere bene il tempo di capire, sei in balia di una bestia. Non lo fanno neppure per l’incasso. Roba da non crederci! Non ti pestano per derubarti! Ti pestano per rabbia. Ti pestano per non pagare. A volte ti pestano persino perché quel giorno.. gli gira così. E tu devi solo pregare; pregare che questa volta non ti sia capitato quello matto, quello matto sul serio che tira fuori il coltello. Cerchi di difenderti la faccia, il collo, ti rannicchi e intanto strisci lontano se ce la fai e invochi che qualcuno intervenga. Eh già.. qualcuno. Si, perché mica succede quanto sei solo tu e il cliente da soli. Oh no! Ce ne sono altri che guardano, che o son curiosi o fanno finta di niente. Altri che intimamente pensano “prima o poi lo faccio pure io”. Poi, quando tutto sarà finito cercheranno di giustificarsi.. “non credevo avrebbe colpito, un coltello! E chi se lo aspettava!”. Ci sono poi le volte che ti va bene. Già perché gli insulti, quelli non fanno male. Gli sputi neppure. Quelli sono giornalieri. Sono davvero la normalità. Vi hanno mai sputato in faccia? Lo avete mai sentito il caldo di uno sputo addosso che cola vicino le labbra e il gelo nel cuore? Il ribrezzo, la paura delle malattie, il non poter reagire? Vorrei che una volta, solo per una volta, provaste sulla vostra pelle questo disprezzo. Il sentirsi colpevoli, colpevoli del lavoro che si fa e non della persona che si è.
Quando cominci, non ti rendi bene conto che è pericoloso. Nessuno te lo dice apertamente. Ti danno dei vestiti, si raccomandano che tu sorrida e sia gentile, ti avvisano che potrebbero esserci dei clienti difficili, ma poi ti rassicurano: la frase giusta, il comportamento corretto e vedrai che ti paga! Una vera e propria scuola, mesi di preparazione. Un po’ arrivi pure a crederci, un po’ hai altre mille novità su cui concentrarti.
Il capo è venuto a trovarmi oggi in ospedale. Mi guardava con quella faccia.. mezzo preoccupato e mezzo indagatore. Voleva sapere com’è successo, ho dosato le parole. In fondo è un attimo che diventi tutta colpa mia. Dicevo, è venuto a trovarmi. Lo fa per gli altri, per salvare la faccia, per evitare una rivolta. Si, avete letto bene, gli altri. Mica siamo solo donne! Donne o uomini, ormai non è un mestiere riservato solo a una categoria com’era qualche anno fa. Ci sono persino clienti che te lo dicono in faccia che preferiscono ora che “siamo misti”, quasi mi facessero un complimento, come se mi facessero un piacere; quasi fosse un privilegio. Razzisti nel 2015. Ma noi non dobbiamo pensare. Mai. Un sorriso, un grazie.. e quel che pensi ben celato nel cuore. L’importante è la cortesia. Sempre. Certe frasi poi.. mi fanno proprio male. Frasi dette tra di noi. Quando mi dicono: “Eh ma che?!? Ti vuoi far pagare proprio da tutti? Allora te le cerchi! Che non Io sai che per qualcuno è tutto gratis?!”. Come se poi lo potessi dichiarare candidamente che a volte non ci provo neppure a farmi pagare! O che certe volte me ne sto seduta mezza nascosta e neppure mi faccio vedere perché ho paura. Se lo sanno poi chi ne risponde? lo ovvio! Questa cosa tutta italiana di far ricadere la colpa sulla vittima! Questa bugia del cervello che per rassicurarci che domani non toccherà a noi, ci fa ricercare colpe dove non ce ne sono. “Se l’è cercata!”. Che rabbia!
Ma la cosa che mi fa più rabbia è lo Stato. Si lo Stato, che finge di non vedere, che finge di non sapere che esistiamo e che esiste un problema. Che non si vuole far carico della nostra sicurezza. Quasi spettasse a qualcun altro occuparsi della mia incolumità. Lo Stato che si gira dall’altra parte. Che ci utilizza per campagne mediatiche e il giorno dopo ci dimentica. Gli stessi politici che spesso sono clienti. Ecco, ho pretese alte io. Credo ancora in uno Stato, credo ancora nell’uguaglianza dei diritti delle persone. Nonostante quello che vedo e vivo tutti i giorni sulla mia pelle.
Eppure.. eppure non riesco a smettere di pensare che una volta era un bel mestiere, in fondo. Ci potevi persino far campare la famiglia. E ti portavano rispetto. Si, una volta il mio era un lavoro rispettato. Ah, non vi ho ancora detto che mestiere faccio? Dai, non ditemi che non l’avete capito! Io sono, io sono alla mercé dei miei clienti tutti i giorni, la mia azienda, lo Stato non mi proteggono. Io sono un Capotreno.
Questa lettera – questo sfogo – la dedico a Carlo, che ha subito 10 ore di intervento a causa di ripetuti colpi di machete; la dedico a Riccardo che è stato accoltellato; a Elisa che, mentre tentava di non soffocare, guardava negli occhi la cliente che le stringeva il collo… la dedico a tutti noi, che indossiamo una divisa e non un’armatura. E la dedico a Voi, che ci odiate e disprezzate ma che se vi capitasse l’occasione firmereste il nostro stesso contratto di lavoro senza pensarci un secondo. E in ultima la dedico a mio figlio, dal quale cerco di tornare sempre con un sorriso in faccia, magari dopo essermela lavata ed essermi tolto l’ennesimo vostro sputo di dosso».